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giovedì 19 agosto 2010

Raffaele Morelli: il senso della vita

raffaele morelli psicologia
Nel corso della mia attività di psicoterapeuta, mi sono più volte reso conto che le vite sacrificate al successo, così come è comunemente inteso, sono spesso destinate a un esito negativo: in nome del denaro e della carriera ci priviamo di troppe opportunità che rendono il cervello in grado di seguire un percorso libero, creativo, costringendo le nostre giornate in una serie di comportamenti standard con il solo fine di raggiungere gli obiettivi.
I soldi e la fama non sono di per sè da demonizzare: ciò che li rende dannosi è l'accanimento nel conseguirli, il tentativo di superare ogni resistenza interna per ottenerli. E invece le resistenze contengono suggerimenti preziosi per trovare benessere e felicità. Prima di andare al lavoro ci coglie un senso di profonda stanchezza? Al rientro a casa siamo vittime di un imprevisto accesso di aggressività?
Il consueto appuntamento con gli amici è fonte d'angoscia? In tutti questi casi, la nostra vera natura ci sta avvertendo che una parte di noi non corrisponde più a ciò che abbiamo sempre fatto e che pensavamo fosse il nostro cammino. Il medesimo discorso vale, naturalmente, per tutti quegli atteggiamenti e quei modi di pensare che abbiamo a lungo abbracciato per ottenere successo nell'attività professionale, nell'amore, con gli amici.
Quando ci imponiamo uno stile non nostro, che non appaga la nostra essenza, il disagio arriva puntuale per scardinare quell'ordine precostituito che ci eravamo imposti e per riportarci... sulla via di casa. Il vero successo, a qualsiasi età, è stare bene con se stessi, sentirsi pienamente realizzati. (...)
Qualsiasi altro trionfo, qualsiasi altro mezzo per conseguire dei "risultati" è puramente transitorio e destinato, una volta raggiunto l'obiettivo, a tramontare lasciando un insopportabile senso di vuoto. Il vero obiettivo siamo noi: non dimentichiamolo.

Nell'idea di successo è contenuto il presupposto dell'insoddisfazione. Poniamo il caso di un dirigente d'azienda, giunto all'età della pensione dopo anni di ascesa professionale ed economica. Dopo una vita di sacrifici e di fatiche rischia di sentirsi perso. Concluso il lavoro, che è stato fino a quel momento la sua principale ragione d'essere, cosa gli resta? Se stesso. Ma non gli basta, non è appagato, non è felice. Perchè il suo "se stesso" è stato scavalcato per anni dagli obiettivi professionali, dalle aspettative di guadagno. Così, invece di dedicarsi finalmente ai suoi interessi (non ne ha mai coltivati!) preferisce continuare a lavorare. Oppure, decide di "obbligarsi" alla pensione ma si deprime perchè non sa come riempire le giornate.
Proiettato in un passato di successo, non sa come gestire il presente e non coglie le occasioni di benessere che la sua nuova condizione gli offre.
Il medesimo destino può colpire una madre che si è sempre "sacrificata per i figli": cosa ne sarà di lei quando questi, divenuti grandi, se ne andranno per costruire autonomamente la propria esistenza? In entrambi i casi, l'errore fondamentale è sempre lo stesso: la mancanza di centratura su se stessi.
C'è da chiedersi se, con un siffatto stile di vita, si possa realmente essere felici, anche mentre si sta vivendo per esempio la condizione di top manager o di madre perfetta. Alla base di questo modo di realizzarsi, c'è spesso una mancanza di senso che nel turbinio degli impegni quotidiani non si è in grado di ascoltare. Ma che emerge creando malessere quando le cose da fare non occupano più tutto l'orizzonte mentale, lasciando campo libero ai dubbi, alle incertezze, ai disagi, ai rimorsi e ai rimpianti.

Chiedersi il senso delle cose è naturale. Soprattutto in presenza di un evento traumatico, un abbandono, un incidente, ma anche quando dobbiamo far fronte a un fallimento, cerchiamo di capire perchè sia accaduto proprio a noi, cosa avremmo dovuto fare o dire per evitare di incappare in quel problema.
Pensiamo che, per forza, tutti gli accadimenti debbano avere un significato... Così come, al culmine delle nostre riflessioni esistenziali, immaginiamo che la nostra stessa presenza nel mondo debba per forza avere un senso.
Ma sovente, nel porci queste domande, guardiamo la vita solo nel suo aspetto esteriore. Che senso ha faticare tanto per poi andare in pensione? Che senso ha prodigarsi per la famiglia se poi il partner ci lascia? Che senso ha accumulare storie d'amore fallimentari per poi ritrovarsi sempre soli? Il senso di quanto è accaduto viene indagato a posteriori, magari colpevolizzando condotte che alla luce dei fatti si rivelano poco consone al raggiungimento di quello scopo... In realtà facendo così perdiamo di vista l'evento.
Osserviamo la natura: la luna cambia tutti i giorni nell'arco di un mese, nel nostro corpo in ogni istante si producono milioni di nuove cellule e altrettante ne muoiono. E' un concetto chiave del buddismo, si chiama "impermanenza": tutto, noi compresi, è destinato a mutare, la nostra stessa vita è destinata a mutare e il vero successo sta nell'accogliere e accettare questa legge universale, in tutte le stagioni della vita.
La realizzazione di sè non è mai un processo prestabilito, nè più di tanto spiegabile. Per questo il successo, inteso all'occidentale, ci può davvero fare male. Ci ferisce se lo afferriamo, perchè sperimentiamo la fatica di trattenerlo. Ci ferisce se non lo raggiungiamo, perchè ci costringe a fare i conti con la nostra presunta inadeguatezza.
Tirando le somme, ci ferisce perchè ci cristallizza in un'immagine fissa, vincente o perdente che sia, sulla base della quale costruiamo l'esistenza. Ma noi siamo sempre nuovi, in ogni istante.
E ogni forma di identificazione (con un obiettivo, con un'idea di noi che abbiamo ereditato dai nostri genitori o mutato dalla società) ci porta a restringere il campo, a osservarci da un solo punto di vista, rischiando di lasciarci soli di fronte ai nostri fallimenti. (...)

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