
Mentre gli scienziati dell'Università della California di Los Angels stavano scoprendo che una terapia cognitiva basata sulla mente può cambiare il cervello - che un certo atteggiamento di chi pensa verso i propri pensieri può modificare l'attività elettrica e chimica di un circuito cerebrale - gli scienziati discutevano animatamente sugli effetti della psicoterapia, che alcuni non ritenevano capace di apportare tangibili cambiamenti psicologici, e tantomeno di modificare l'attività del cervello e la sua struttura fisica. Al centro della controversia, la depressione. Il 29 dicembre 1987, la statunitense Food and Drug Administration aveva autorizzato il colosso farmaceutico Eli Lilly a mettere in commercio la fluoxetina cloridrato, una sostanza contro questa patologia: col nome di Prozac, il nuovo farmaco diventò così popolare da comparire sulle copertine delle riviste, negli articoli dei quotidiani e ispirare più di un romanzo di successo. In breve tempo la spesa globale per acquistarlo raggiunse i due miliardi di dollari all'anno. Ma il Prozac sembrava essere qualcosa di più dell'ultimo arrivato nella famiglia degli antidepressivi; grazie alla sua molecola, era capace di correggere in modo specifico lo squilibrio all'origine della depressione; squilibrio che, secondo alcuni, consisteva in una cronica carenza di serotonina nelle sinapsi del sistema nervoso centrale. La scalata del Prozac coincise con la progressiva perdita di prestigo della psicoterapia. Lunga, costosa e oggetto di scherno più che di rigorosi studi scientifici, questa cura cominciò ad apparire antiquata quanto il lettino su cui Freud faceva sdraiare i suoi pazienti.
Questo non significava, però, che gli psicoterapeuti fossero pronti a gettare la spugna. Al contrario. Nel 1989 gli scienziati divulgarono i risultati della più ambiziosa ricerca mai avviata per confrontare l'efficacia della psicoterapia e della terapia medica nella cura della depressione. Col nome di "Progetto di ricerca associato sulla depressione" questo studio biennale fu finanziato e organizzato dal National Institute of Mental Healt. Duecentocinquanta pazienti ambulatoriali con sintomi depressivi di rilievo furono indirizzati a caso verso quattro diversi tipi di terapia: psicoterapia interpersonale, terapia cognitiva-comportamentale, terapia farmacologica con imipramina (un antridepressivo tradizionale) e pillole a base di una sostanza priva di effetti farmacologici (placebo). Negli ultimi due casi i pazienti ricevettero anche la cosiddetta gestione clinica, ovvero si recavano da uno psichiatra per essere visitati e ricevere la prescrizione medica.
Elaborato negli anni Sessanta, il trattamento cognitivo-comportamentale non si preoccupa delle cause della depressione, ma tenta di insegnare ai pazienti a gestire diversamente le proprie idee, le proprie emozioni e i propri comportamenti. Lo scopo è aiutare le persone depresse a riesaminare i loro modi di pensare e a rendersi conto della natura errata e dannosa di giudizi come: "Il fatto che non mi abbiano offerto un impiego significa che sono destinato all'indigenza, a restare senza casa nè lavoro". I pazienti imparano a riflettere sui propri pensieri e a smettere di concentrarsi su ogni piccolo insuccesso o delusione. Invece di interpretare una storia finita male come una prova della loro inettitudine, tanto da portarli a credere che nessuno vorrà mai bene loro, vengono aiutati a considerare simili contrattempi banali incidenti di percorso; anzichè pensare che una macchia sul soffitto è la prova che "non gliene va mai bene una", questi pazienti imparano a considerare seccature del genere "ordinaria amministrazione". In breve, il depresso viene aiutato a prendere coscienza di possedere un'inclinazione a trasformare contrattempi in catastrofi e delusioni in tragedie, e a sottoporre a un esame razionale le proprie conclusioni esagerate. Se è convinto che non sarà mai apprezzato da nessuno, il terapeuta lo invita a unirsi a un gruppo in cui potrebbe conversare e possibilmente farsi degli amici. Esercitarsi a valutare le situazioni in modo obiettivo aiuta il paziente ad accorgersi del carattere non realistico del proprio pessimismo e, grazie alle sue nuove capacità cognitive, a vivere i momenti di difficoltà e di tristezza senza finire nel vortice della depressione.
La terapia interpersonale, d'altra parte, riconosce che anche se la depressione può non dipendere dai rapporti con gli altri, certamente li influenza. Perciò si concentra sulla risoluzione di contrasti e conflitti interpersonali, cambiamenti di ruolo - il genitore i cui figli crescono e lasciano la casa paterna, solo per fare un esempio - e altri complessi e dispiaceri persistenti.
Durante le 16 settimane della ricerca, in tutti e quattro i gruppi si verificò una diminuzione dei sintomi della depressione. L'imipromina produsse i miglioramenti più accentuati in chi era più gravemente malato, mentre il placebo aiutò chi lo era in maniera più lieve; i due tipi di psicoterapia si collocarono a metà strada. Tuttavia tra i pazienti con depressione lieve o moderata le psicoterapie diedero risultati paragonabili per entità a quelli della terapia medica. "Nella depressione la potenza della terapia cognitivo-comportamentale è considerevole, senz'altro quanto quella delle normali terapie farmacologiche". Così nel 1996 Gavin Andrews, professore di Psichiatria, scrisse sulle pagine del "British Medical Journal": "Se queste terapie psicologiche avessero comportato l'uso di farmaci sarebbero state ufficialmente dichiarate rimedi efficaci e sicuri, e avrebbero costituito un aspetto essenziale della farmacopea di ogni medico. Ma poichè non sono state sviluppate da società che fanno utili, e non utilizzano reti di vendita e campagne pubblicitarie, il loro uso stenta ad affermarsi". Nonostante questo e altri studi successivi abbiano confermato l'efficacia della psicoterapia nella depressione, il preconcetto che sia inefficace o inferiore alla terapia medica si è rivelato difficile da scalzare.
Mentre la ricerca del Nimh era in corso, un giovane psicologo di nome Zindel Segal studiava a sua volta la depressione. In merito alla polemica farmaci-psicoterapia ricorda che "la divisione in due schieramenti era molto netta. C'era una partigianeria produttiva, con gli psicologi che sostenevano che c'erano prove convincenti dell'efficacia della loro terapia" e molti scienziati convinti che non ci fosse posto per la psicoterapia in un mondo dove esiste il Prozac. Invece di prendere di petto la questione dell'efficacia della psicoterapia, Segal decise di verificare se non avesse qualche effetto su un aspetto diverso, ma forse ancora più importante della depressione: la frequenza delle ricadute.
La depressione è tristemente nota per la frequenza e la gravità delle sue ricadute. Un paziente può illudersi di aver finalmente spezzato le catene della malattia e dopo qualche tempo ritrovarsi di nuovo nel baratro dello sconforto, così nel 50% dei casi. A causa dell'elevata frequenza delle ricadute, i pazienti soffrono in media, nella vita, di quattro importanti episodi di depressione, che durano circa cinque mesi ciascuno. "Molte persone continuano ad ammalarsi, spiega Segal. "Sfortunatamente, la cura permette di riprendersi, ma il rischio di una ricaduta resta alto. Nella depressione la guarigione definitiva non è la regola." Ed effettivamente medici e pazienti cominciarono a notare che anche con gli antidepressivi non era tutto oro quello che luccicava: se smettevano subito di prendere il farmaco, i malati avevano un'alta probabilità di avere una ricaduta entro due anni dall'inizio del trattamento. La maggior parte dei pazienti, dice Segal, "ha bisogno di continuare anche dopo che i sintomi scompaiono".
Inutile dire che la delusione fu grande. Ma la ricerca aveva anche dimostrato l'efficacia della psicoterapia rispetto agli antidepressivi. "Quello che si pensava in quel momento era che la psicoterapia, soprattutto cognitiva, potesse produrre cambiamenti durevoli negli atteggiamenti e nelle opinioni che le persone nutrivano su loro stesse, proteggendola a lungo dopo la conclusione del trattamento" dice Segal. "Alcune opinioni, come l'idea che chiedere aiuto sia un segno di debolezza o che per essere stimati dagli altri sia necessario avere sempre ragione, rendono le persone più vulnerabili rispetto a una ricaduta. Se chi palesa questi atteggiamenti subisce una frustrazione relativamente modesta, ciò che è propenso a dedurre - per esempio che non vale nulla e non sarà mai stimato da nessuno - aumenta le probabilità di una ricaduta nella malattia anche dopo una cura che ha avuto successo. La nostra ipotesi era che se la terapia cognitiva fosse riuscita a cambiare questi atteggiamenti, il rischio di una ricaduta sarebbe diminuito".
L'intuizione di Segal nasceva dal fatto che la terapia cognitiva è in sostanza un allenamento mentale che abitua i pazienti a porsi diversamente di fronte ai loro pensieri che, nel caso della depressione, sono spesso cupi, pessimistici, scoraggianti o detto altrimenti "disforici". Naturalmente chiunque può nutrirli di tanto in tanto. Chi è depresso, però, innesca una spirale di idee negative abbastanza intense e tenaci da dare inizio a un episodio di depressione conclamata, che nei casi tipici può durare qualche mese. Un insuccesso professionale o una delusione sentimentale vengono ingigantiti fino a trasformarsi nella convinzione che "niente riuscirà bene. La vita non riserva niente di buono, sarò sempre un fallito totale". Come è stato illustrato, la terapia cognitiva insegna ai depressi a ragionare sulle idee e i sentimenti che alimentano la malattia, in modo che non degenerino provocando un effetto valanga culminante nell'episodio depressivo grave, ma che invece diventino, come suggerito da John Teasdale, "di breve durata e tali da auto-limitarsi".
Qui sta la ragione per cui la terapia cognitiva appare potenzialmente più efficace nel prevenire le ricadute dei farmaci antidepressivi. (...)
Da "La tua mente può cambiare" - Sharon Begley
Altri libri sulla depressione acquistabili qui