
Nessuno di noi può dirsi immune dai sensi di colpa ma c'è chi sembra soggetto più di altri a macerarsi nei rimorsi. "L'eterno colpevole" è costantemente sotto processo, passa in esame ogni azione che compie, si dibatte in una ragnatela di autoaccuse che lo inchiodano. Qualsiasi circostanza è buona per istillargli l'amaro veleno: avrebbe potuto fare di più e meglio, dovrebbe stare più attento a quello che dice, cercare di controllarsi. Persino le lodi lo fanno sentire in debito, come se non le meritasse, in fondo lui ha fatto solo il suo dovere. La sua convinzione di base è che la vita sia sofferenza, la felicità un privilegio che non gli spetta: prima o poi gli verrà tolto o messo in conto. Tanto vale punirsi da solo o assumere un atteggiamento dimesso o defilato.
Ma quali sono le caratteristiche di chi fa del senso di colpa la sua fedele sentinella? Si tratta di soggetti fortemente disciplinati che mostrano un atteggiamento inflessibile nei confronti di norme e divieti.
Il senso del dovere è fortissimo, così come il bisogno di essere approvati e di rientrare nella normalità. L'attenzione è tutta spostata all'esterno, le regole che disciplinano il comportamento sono quelle della morale, della tradizione, del senso comune, leggi non scritte che vengono accettate senza possibilità di interpretazione personale. Mancano in questi soggetti la rielaborazione soggettiva, lo spirito critico e l'autonomia, ciò che fa dell'uomo una creatura responsabile e matura, capace di autogestirsi, in una parola, adulto.
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Partiamo dall'inizio: abbiamo commesso un errore, il senso di colpa sferra il suo attacco, parte l'autocondanna... E' proprio a questo punto che possiamo intervenire per evitare di innescare un circolo perverso. Anzichè massacrarci o recriminare, limitiamoci a osservare la situazione senza esprimere alcun giudizio nè cercare giustificazioni; le motivazioni, sia pure inconsapevoli che ci hanno spinto a scegliere quel comportamento, affioreranno.
Quello che scopriremo aggiungerà un tassello in più alla conoscenza di noi stessi, delle motivazioni più profonde e personali. Se ci assumiamo le responsabilità del nostro operato, la colpa non potrà più farci da alibi, la consapevolezza fa sì che diventiamo più padroni di noi stessi e quindi capaci di agire autonomamente, senza bisogno di affidarsi ciecamente a principi astratti o imposti dagli altri. La logica della schiavitù e della trasgressione cede il posto alla libera scelta e all'esercizio della propria volontà.
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Le frasi sbagliate
"Devo farmi perdonare"
E' la frase che innesca comportamenti riparativi a tempo indeterminato: si finisce così per strafare e mettere in atto condotte dimostrative, tutte improntate su strategie di recupero. Ma in realtà il "tempo di recupero" è un'astrazione che non esiste. Inseguirlo significa non vivere il presente, facendo dell'errore commesso il motore e la ragione delle scelte future. Alla lunga genera in chi la ripete a se stesso senso d'inadeguatezza e scontento cronici, originati soprattuttto dalla mancata assoluzione che non ci decidiamo a darci per pareggiare il conto.
"Ho rovinato tutto"
Vittimismo, sopravvalutazione del danno arrecato, tendenza all'auto-commiserazione e richiesta più o meno tacita di rassicurazioni dall'esterno: questi gli ingredienti velenosi della frase. Ripetuta a oltranza a se stessi, arena chi la pronuncia in un immobilismo che incancrenisce il senso di colpa, impedendo di trovare la via per passare oltre.
"Mi tocca stare zitto e ingoiare"
Frase pericolosa, perchè ci condanna all'espiazione permanente, disponendoci in totale passività ad accettare umiliazioni e disagi, come fosse il pedaggio obbligato da pagare per la colpa commessa. I bocconi "amari" che mandiamo giù ogni giorno diventano causa di nuovi risentimenti nei confronti di chi, secondo noi, ce li propina. Finiamo così per dimenticare che siamo noi a servirceli quotidianamente sul piatto, nella speranza che la pena protratta azzeri la colpa.
(...)
Chi vive immerso nel senso di colpa si porta dietro dal passato un fardello di autoaccuse che diventano man mano che passa il tempo un'unica grande autoaccusa indefinita ma molto potente. Ogni nuovo senso di colpa si deposita su questa massa informe sempre crescente, in cui non si capisce più cosa sia vero o falso, cosa sia un ricordo preciso o una deriva della memoria. Di questo passo il grande "blob" autocolpevolizzante non solo diverrà inattaccabile, ma avrà sempre più potere. Ciò si traduce in una espiazione cronica, talora lamentosa, che blocca il fluire dell'esistenza.
(...)
La psicoanalisi ha da tempo dimostrato che dietro un cronico senso di colpa c'è in realtà la tendenza a viversi come "onnipotenti". Sentirsi colpevoli significa in fondo pensare che la propria azione sia in grado di provocare nelle altre persone dolori, dispiaceri, infelicità fallimenti e scelte sbagliate. Un egocentrismo smisurato ma mascherato dalla colpa. In realtà questa onnipotenza è fatua: noi non possiamo che controllare una minima parte della realtà, il resto non dipende da noi. Siamo immersi in flussi vitali ben più grandi e qualsiasi cosa facciamo agirà sulla realtà in modo diverso da come ci attendiamo. Ci serve un modo per "vedere" l'immensa pochezza del nostro tentativo di controllo.
Da "Riza psicosomatica n°299" Libri di Riza disponibili qui
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Le frasi sbagliate
"Devo farmi perdonare"
E' la frase che innesca comportamenti riparativi a tempo indeterminato: si finisce così per strafare e mettere in atto condotte dimostrative, tutte improntate su strategie di recupero. Ma in realtà il "tempo di recupero" è un'astrazione che non esiste. Inseguirlo significa non vivere il presente, facendo dell'errore commesso il motore e la ragione delle scelte future. Alla lunga genera in chi la ripete a se stesso senso d'inadeguatezza e scontento cronici, originati soprattuttto dalla mancata assoluzione che non ci decidiamo a darci per pareggiare il conto.
"Ho rovinato tutto"
Vittimismo, sopravvalutazione del danno arrecato, tendenza all'auto-commiserazione e richiesta più o meno tacita di rassicurazioni dall'esterno: questi gli ingredienti velenosi della frase. Ripetuta a oltranza a se stessi, arena chi la pronuncia in un immobilismo che incancrenisce il senso di colpa, impedendo di trovare la via per passare oltre.
"Mi tocca stare zitto e ingoiare"
Frase pericolosa, perchè ci condanna all'espiazione permanente, disponendoci in totale passività ad accettare umiliazioni e disagi, come fosse il pedaggio obbligato da pagare per la colpa commessa. I bocconi "amari" che mandiamo giù ogni giorno diventano causa di nuovi risentimenti nei confronti di chi, secondo noi, ce li propina. Finiamo così per dimenticare che siamo noi a servirceli quotidianamente sul piatto, nella speranza che la pena protratta azzeri la colpa.
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Chi vive immerso nel senso di colpa si porta dietro dal passato un fardello di autoaccuse che diventano man mano che passa il tempo un'unica grande autoaccusa indefinita ma molto potente. Ogni nuovo senso di colpa si deposita su questa massa informe sempre crescente, in cui non si capisce più cosa sia vero o falso, cosa sia un ricordo preciso o una deriva della memoria. Di questo passo il grande "blob" autocolpevolizzante non solo diverrà inattaccabile, ma avrà sempre più potere. Ciò si traduce in una espiazione cronica, talora lamentosa, che blocca il fluire dell'esistenza.
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La psicoanalisi ha da tempo dimostrato che dietro un cronico senso di colpa c'è in realtà la tendenza a viversi come "onnipotenti". Sentirsi colpevoli significa in fondo pensare che la propria azione sia in grado di provocare nelle altre persone dolori, dispiaceri, infelicità fallimenti e scelte sbagliate. Un egocentrismo smisurato ma mascherato dalla colpa. In realtà questa onnipotenza è fatua: noi non possiamo che controllare una minima parte della realtà, il resto non dipende da noi. Siamo immersi in flussi vitali ben più grandi e qualsiasi cosa facciamo agirà sulla realtà in modo diverso da come ci attendiamo. Ci serve un modo per "vedere" l'immensa pochezza del nostro tentativo di controllo.
Da "Riza psicosomatica n°299" Libri di Riza disponibili qui